La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15330 del 2025, ha stabilito che il licenziamento per vendetta è nullo anche quando colpisce un dirigente. Una decisione che rafforza le garanzie contro i recessi motivati da intenti personali o ritorsivi, estendendo la tutela reale anche a una categoria tradizionalmente esclusa come quella dei manager. La pronuncia chiarisce che, se il recesso è dettato da un fine illecito e punitivo, la nullità scatta a prescindere dal livello gerarchico del lavoratore.
Il caso del licenziamento di un dirigente di banca
La vicenda nasce dal licenziamento di un direttore centrale di un istituto di credito, incaricato di seguire un piano di risanamento aziendale. Nel corso delle sue funzioni, il dirigente aveva evidenziato problemi organizzativi e resistenze interne, suscitando l’ostilità dei vertici. Progressivamente isolato, è stato poi licenziato sulla base di accuse disciplinari rivelatesi infondate: presunti abusi nell’uso dell’auto aziendale e irregolarità nei permessi per malattia.
I giudici di primo e secondo grado, nell’ambito del rito Fornero, hanno riconosciuto l’assenza di motivazioni reali e dichiarato nullo il licenziamento, ordinando la reintegrazione del dirigente ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. L’istituto di credito ha impugnato la decisione in Cassazione, sostenendo la legittimità del recesso.
Il principio affermato dalla Suprema Corte
La Cassazione ha confermato le conclusioni dei giudici d’appello, richiamando l’articolo 1345 del Codice Civile, secondo cui è nullo l’atto determinato da un motivo illecito. Il licenziamento ritorsivo – afferma la Corte – si configura quando rappresenta una reazione ingiustificata e arbitraria a un comportamento legittimo del lavoratore o di una persona a lui legata. In questi casi, l’espulsione non ha natura disciplinare né economica, ma punitiva, e pertanto deve considerarsi nulla.
Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto che il licenziamento fosse dettato da un intento vendicativo nei confronti del dirigente per le sue segnalazioni interne. Di conseguenza, è stata confermata la reintegrazione, anche se i dirigenti, in genere, non godono delle stesse tutele dei dipendenti subordinati.
La prova dell’intento ritorsivo del licenziamento
La Cassazione ha sottolineato che dimostrare la vendetta datoriale non è semplice: l’onere della prova grava sul lavoratore, che deve provare che l’intento punitivo è stato l’unico e determinante motivo del recesso. Raramente esistono prove dirette, come documenti o email, perciò la dimostrazione si basa su presunzioni, cioè su una serie di elementi oggettivi: la tempistica del licenziamento, l’inconsistenza delle accuse, il comportamento professionale pregresso e le testimonianze.
Nel caso analizzato, i giudici hanno correttamente ricostruito la sequenza logica degli eventi, concludendo che l’allontanamento del dirigente era privo di giustificazione e mirato esclusivamente a punirlo per la sua condotta critica.
Le conseguenze per il datore di lavoro
Quando un licenziamento viene dichiarato nullo, le ripercussioni economiche per l’azienda sono significative. Oltre alla reintegrazione del lavoratore, il datore deve versare tutte le retribuzioni maturate dal giorno del recesso fino al reintegro – per un minimo di cinque mensilità – e i contributi previdenziali e assistenziali dovuti, oltre alle sanzioni per omissione contributiva. Il lavoratore può tuttavia rinunciare al rientro, scegliendo un’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità , se ritiene compromesso il clima lavorativo.
Cosa cambia con la sentenza
Con questa decisione, la Cassazione rafforza un orientamento già emerso in precedenti pronunce (come le sentenze n. 26395/2022 e n. 6838/2023), ribadendo che la libertà di recesso del datore di lavoro non può trasformarsi in uno strumento di punizione. Il principio vale anche per i dirigenti, confermando che la tutela contro i licenziamenti ritorsivi è espressione dei diritti fondamentali della persona, che prevalgono sulla discrezionalità imprenditoriale.
Il licenziamento ritorsivo si configura ogni volta che il datore reagisce in modo punitivo a un comportamento legittimo del dipendente: può trattarsi della denuncia di irregolarità aziendali, della partecipazione a un sindacato o dell’avvio di un contenzioso.
Un segnale di equilibrio tra impresa e lavoratore
La sentenza n. 15330/2025 invia un messaggio chiaro: la gestione del personale deve ispirarsi ai principi di buona fede e correttezza. L’iniziativa imprenditoriale non può essere usata per punire chi esercita i propri diritti o solleva critiche costruttive. Allo stesso tempo, la decisione rappresenta per i lavoratori – dirigenti inclusi – una conferma della possibilità di ottenere giustizia contro abusi e licenziamenti arbitrari.