Revoca del licenziamento in gravidanza: la Cassazione ribadisce la nullità del recesso tardivo

Una donna in gravidanza

Una donna in gravidanza | Pixabay @fezailc - Sanzioniamministrative.it

Alanews

Ottobre 31, 2025

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26957 del 7 ottobre 2025 (udienza del 24 settembre 2025), ha riaffermato i limiti giuridici e temporali della revoca del licenziamento nei confronti delle lavoratrici in gravidanza, chiarendo l’applicazione dell’articolo 5 del D.Lgs. 23/2015. La decisione conferma la nullità del licenziamento intimato a una dipendente in stato di gravidanza e stabilisce che la revoca del recesso, se tardiva, non produce effetti giuridici.

Il caso: licenziamento durante la gravidanza e revoca oltre i termini

La vicenda nasce dal licenziamento di una lavoratrice avvenuto nel dicembre 2018, quando la società datrice di lavoro non era ancora a conoscenza della gravidanza della dipendente. Dopo aver appreso della sua condizione, la donna ha impugnato il licenziamento chiedendone la nullità per violazione del divieto previsto dal D.Lgs. n. 151/2001 in materia di tutela della maternità.

La Corte d’appello di Milano, ribaltando la decisione del Tribunale di Busto Arsizio, ha accolto il ricorso della lavoratrice, disponendo la sua reintegrazione, il risarcimento del danno e il versamento dei contributi previdenziali. La società ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che la revoca non fosse tardiva perché lo stato di gravidanza era stato comunicato solo a febbraio 2019, e che la lavoratrice avesse implicitamente accettato la revoca riprendendo il lavoro, configurando un’accettazione tacita secondo le regole del Codice civile.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando la tardività della revoca e la nullità del licenziamento. I giudici hanno stabilito che il termine di 15 giorni previsto dal D.Lgs. 23/2015 per la revoca del licenziamento decorre dall’impugnazione e ha natura perentoria, non prorogabile. Si tratta di un termine volto a garantire la certezza dei rapporti giuridici: oltre tale limite, il datore di lavoro non può più beneficiare delle attenuazioni sanzionatorie previste dalla normativa sui licenziamenti illegittimi.

La Cassazione ha inoltre precisato che la ricostituzione del rapporto di lavoro può avvenire solo su base consensuale, attraverso un accordo tra le parti, ma non può essere imposta né derivare da comportamenti taciti. Il lavoratore, infatti, non ha alcun obbligo di accettare una proposta di riassunzione, né è tenuto a motivare un eventuale rifiuto.

Richiamando la precedente sentenza n. 12448 del 2018, la Corte ha ribadito che il datore di lavoro può revocare validamente il licenziamento solo entro il termine di 15 giorni. Trascorso tale periodo, la revoca non ha efficacia giuridica e il licenziamento resta nullo, con pieno diritto alla reintegrazione. Nel caso esaminato, la revoca era avvenuta oltre i termini e la lavoratrice non aveva accettato la proposta di ripristino del rapporto: la società è stata quindi condannata al pagamento delle spese processuali e al contributo unificato aggiuntivo previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002.

Tutela piena per la lavoratrice

La conferma della nullità del licenziamento ha comportato, per la lavoratrice, la reintegrazione nel posto di lavoro e il riconoscimento del risarcimento per il periodo di mancata occupazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali maturati. Tali conseguenze derivano dall’articolo 2 del D.Lgs. 23/2015, che disciplina gli effetti del licenziamento nullo.

La sentenza garantisce quindi alla lavoratrice una tutela completa: il ripristino del rapporto alle condizioni originarie, il recupero delle mensilità perdute e la copertura previdenziale integrale. A differenza della revoca tempestiva, che comporta la semplice prosecuzione del rapporto senza risarcimenti aggiuntivi, la revoca tardiva determina l’applicazione delle tutele piene, con riconoscimento formale della violazione e delle conseguenze economiche e giuridiche.

La pronuncia della Cassazione rafforza così il principio di certezza e tempestività nei rapporti di lavoro, sottolineando l’importanza della tutela rafforzata per le lavoratrici in gravidanza e l’obbligo dei datori di lavoro di rispettare rigorosamente i termini previsti dalla legge.

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