La Cassazione dichiara nullo il licenziamento di lavoratrice in gravidanza: cosa rischia l’azienda

La Cassazione dichiara nullo il licenziamento di lavoratrice in gravidanza cosa rischia l’azienda (1)

Luca Antonelli

Novembre 2, 2025

Un licenziamento comunicato prima o durante la gravidanza può trasformarsi in una battaglia giudiziaria dai confini netti: così è andata nel caso all’esame della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 26957 del 7 ottobre 2025, ha confermato la nullità del licenziamento nei confronti di una lavoratrice. La vicenda parte da un recesso intimato da una società nel dicembre 2018, seguito dalla comunicazione dello stato di gravidanza e dall’impugnazione del provvedimento da parte della dipendente. I giudici hanno dovuto stabilire non solo se il licenziamento fosse illegittimo, ma anche entro quali limiti temporali e giuridici possa operare la revoca del recesso prevista dalla normativa speciale sui licenziamenti.

Il caso e il quadro normativo

La controversia ha attraversato più gradi di giudizio. In primo grado il Tribunale di Busto Arsizio aveva valutato la questione, poi la Corte d’appello di Milano ha riformato la decisione accogliendo la domanda della lavoratrice: reintegrazione nel posto di lavoro, risarcimento del danno e versamento dei contributi previdenziali, applicando l’articolo 2 del D.Lgs. n. 23/2015. La materia, come ricorda la sentenza, si inscrive in un quadro di tutele speciali che comprende anche l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e l’articolo 54 del D.Lgs. n. 151/2001 in tema di tutela della maternità.

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Sul piano pratico la pronuncia ribadisce anche gli effetti economici previsti dall’articolo 2 del D.Lgs. 23/2015. – sanzioniamministrative.it

La datrice di lavoro ha sollevato due argomenti cardine: primo, che il termine utile di revoca dovesse decorrere non dall’impugnazione del licenziamento ma dalla comunicazione dello stato di gravidanza, avvenuta a febbraio 2019; secondo, che la ripresa del rapporto potesse costituire una accettazione tacita della revoca (per facta concludentia), richiamando i principi del Codice civile sugli adempimenti e sulle manifestazioni di volontà. Un dettaglio che molti sottovalutano è proprio la diversa interpretazione del momento iniziale da cui far decorrere i termini procedurali: da qui nascono spesso i contenziosi più complessi.

Perentorietà della revoca e conseguenze pratiche

La Cassazione ha respinto il ricorso e ha precisato che il termine di 15 giorni previsto dall’articolo 5 del D.Lgs. n. 23/2015 per esercitare la revoca decorre dall’impugnazione del licenziamento e ha carattere perentorio. Questo significa che il diritto potestativo del datore di lavoro a revocare il recesso si esercita soltanto entro il termine stabilito, senza possibilità di proroga o interpretazioni estensive. Di conseguenza, oltre quel limite la revoca non produce effetti attenuanti sulle sanzioni legate al regime speciale dei licenziamenti.

La Corte ha inoltre richiamato la distinzione tra una ricostituzione consensuale del rapporto e una revoca operata unilateralmente oltre i termini: la prima è possibile ma ricade nell’ambito dell’autonomia negoziale e richiede la esplicita accettazione del lavoratore; non esiste alcun obbligo di accettare né l’obbligo di motivare un rifiuto. Nel caso di specie la lavoratrice non aveva aderito alla proposta di ripristino e la revoca era avvenuta oltre i termini, con conseguente conferma della reintegrazione e del risarcimento stabiliti in appello. Un fenomeno che in molti notano solo nella vita quotidiana è quanto incidano i tempi procedurali sulle chance di una conciliazione rapida.

Sul piano pratico la pronuncia ribadisce anche gli effetti economici previsti dall’articolo 2 del D.Lgs. 23/2015: la reintegrazione comporta il ristabilimento della posizione contrattuale, il risarcimento del danno e il versamento dei contributi previdenziali. La società è stata condannata alle spese processuali e al versamento del contributo unificato aggiuntivo previsto dall’articolo 13, comma 1‑quater, del D.P.R. n. 115 del 2002. Per chi lavora nel campo delle relazioni industriali è un richiamo chiaro: la certezza dei termini può decidere l’esito della causa e la sorte economica delle parti.

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